Dogman: una lezione di resilienza dal nuovo film di Luc Besson, in concorso a Venezia 80

“I cani hanno bellezza senza vanità, forza senza insolenza, coraggio senza ferocia e tutte le virtù che hanno gli umani senza nessuno dei loro vizi. Per quanto ne so io, hanno soltanto un difetto: si fidano degli umani.”

Con una frase assolutamente eloquente, tratta da una celebre citazione del poeta britannico George Gordon Byron, si apre il Dogman di Luc Besson. Un film di supereroi, a cui manca solo il fumetto, che finalmente porta alla DC una ventata di freschezza dopo il record di delusioni collezionate nella scorsa estate. In termini di stravaganza e (soprattutto) di vestiario, può essere in qualche modo accostato al Joker di Todd Phillips, vincitore del Leone d’Oro, ma mette anche a disposizione la vetrina perfetta al protagonista Caleb Landry Jones che, grazie a un’esibizione che senza dubbio si colloca all’apice della sua carriera, infonde cuore e anima a un thriller d’azione incredibilmente folle. Il che non è un’impresa da poco per un attore il cui lavoro è sempre stato eccellente ma che così spesso è passato inosservato.

Non c’è nulla che passi lontanamente inosservato in Dogman, che fonde film diversi come Flawless e Willard alla filosofia del “tutto è lecito”, marchio di fabbrica di Besson, con la quale egli si approccia al genere. Le opere di Besson non funzionano sempre – per ogni Léon c’è una Lucy – ma qui in qualche modo emerge un insieme armonioso, in questa lunga storia ‘strampalata’ tessuta dal suo eroe.

Tutto ha inizio nel New Jersey, in un posto di blocco con dei poliziotti sulle tracce di un giovane sulla trentina presumibilmente armato. I poliziotti fermano un furgone alla cui guida risulta lo stesso sospettato, un uomo su una sedia a rotelle con una parrucca bionda, del trucco imbrattato e indosso un vestito di seta rosa strappato. Sul retro un branco di cani di tutte le razze e taglie. “Non vi faranno del male se voi non ne fate a me“, avverte il ricercato.

Non sapendo cosa fare con lui, i poliziotti lo scortano a un centro di detenzione dove convocano la psichiatra Evelyn (Jojo T. Gibbs), una madre single da poco divorziata e con un bambino di nove mesi. Lui rivela di chiamarsi Doug, abbreviazione di Douglas. “Non sono malato, solo stanco“, afferma, e si dimostrerà un paziente molto collaborativo.

Due cose trapelano dalle sessioni di terapia. Una è che Doug da bambino ha subìto violenza, crescendo in una famiglia che si guadagnava da vivere organizzando combattimenti clandestini di cani a cui negava tassativamente il minimo sostentamento nei giorni che precedevano gli incontri, e che gettò il proprio figlio con essi in una sudicia gabbia dopo averlo sorpreso a dar loro da mangiare (assurdamente, questa parte è basata su una storia vera). Doug sfugge alla reclusione quando la polizia fa irruzione nella sua casa, ma un altro tipo di prigionia è in arrivo quando viene introdotto nel sistema dei servizi sociali. Alla fine, si ritrova a gestire un rifugio per animali e quando questo viene privato dei sussidi statali e deve chiudere, lui crea una “tana” segreta per sé e suoi amici canini. Dal suo quartier generale nascosto, una scuola abbandonata, usa il suo serraglio per compiere una serie di audaci incursioni nelle case dei ricchi (“Credo nella redistribuzione della ricchezza“, afferma più di una volta).

Per un po’ Besson si concentra semplicemente su Doug: come si è innamorato della sua insegnante di recitazione e come il suo mondo è crollato quando ha scoperto, dopo anni, che si era sposata ed era incinta. Inoltre si sofferma a seguire Doug nella sua ricerca di un lavoro, mentre viene rifiutato per qualsiasi miserevole mansione possibile, con un’angolazione di ripresa dal basso che intensifica la sua umiliazione in quanto uomo disabile. Stupisce, in seguito, che quando trova lavoro sia in un drag bar; la sua trasformazione in Edith Piaf che canta “La Foule” può definirsi un vero e proprio capolavoro artistico.

Ciò, di per sé, è abbastanza coinvolgente, ma la seconda cosa che Doug rivela a Evelyn – con un guizzo tipicamente bessoniano – coinvolge un arco narrativo in cui Doug entra in contatto con il membro di una gang locale chiamato El Verdugo (“Il Boia”), che estorceva denaro ai suoi amici. Potrebbe sembrare una trama eccessivamente articolata per un film di genere introspettivo, ma Besson la gestisce con grande chiarezza, e proprio quando ci si potrebbe iniziare a chiedere a cosa tutto questo porterà, il film torna indietro, piuttosto sapientemente, al punto di partenza, in modo che tutto improvvisamente acquisti un senso. O meglio, quel minimo di senso che un film con cani che ‘delinquono’ potrà mai avere.

Come Willard e i topi, i ‘dialoghi’ sorprendentemente specifici tra Doug e i suoi compagni a quattro zampe non necessitano di particolare approfondimento, e Besson si diverte molto col suo cast meravigliosamente assortito di varie razze e dimensioni. Ma se si sta al gioco, Dogman è un arguto ‘bocconcino’, inaspettatamente tenero, che prende un’idea semplice e la elabora, valorizzandola, al massimo. Il brano di chiusura vede la Piaf cantare “Non, Je Ne Regrette Rien” in modo abbastanza appropriato per un film che non si esime dall’accumulare eccessi su eccessi. Il brano parla per Besson e Landry Jones, e per chiunque si sia emozionato con Dogman. Sì, parla anche per loro.

Fonte: Deadline

E voi? Se volete scoprire se questa favola amara, ma allo stesso tempo ammaliante, sa toccare anche le vostre corde, non vi resta che andarlo a vedere. Dogman è attualmente in programmazione presso i cinema di tutta Italia.

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