Dog Gone è uno di quei film che scaldano il cuore e che di tanto in tanto è bello guardare.
Disponibile su Netflix dallo scorso gennaio, il film di Stephen Herek si rivolge alle famiglie, ma anche a chi ama gli animali e ha avuto nella sua vita un pelosetto a cui dedicare anima e corpo. Inoltre, i problemi personali che affliggono Fielding, il protagonista, tra cui il rapporto conflittuale con il padre, sono ulteriori spunti di riflessione che la pellicola utilizza per affrontare temi attuali e mai banali quali la ricerca di se stessi e del proprio posto nel mondo.
Dog Gone si basa su fatti realmente accaduti, per la precisione è l’adattamento cinematografico del romanzo “Dog Gone: A Lost Pet’s Extraordinary Journey and the Family Who Brought Him Home” di Pauls Toutonghi, in realtà marito di Peyton Marshall, sorella di Fielding. Questi seppe dalla famiglia Marshall del loro calvario avvenuto a fine anni ’90 quando il loro cane, un golden retriever color miele, scomparve sugli Appalachi. L’animale era affetto dal morbo di Addison e aveva bisogno di un’iniezione speciale ogni trenta giorni. Fu finalmente ritrovato dopo quindici giorni di estenuanti ricerche. Toutonghi rimase talmente affascinato dalla storia che decise di pubblicarla come romanzo per farla conoscere a tutto il mondo.
Fielding Marshall è un ragazzo che si prepara al grande salto nel mondo degli adulti. Sta per laurearsi e lasciare l’università ma non ha ancora trovato la sua strada ed è confuso sull’obiettivo da perseguire, mentre i suoi amici hanno già intrapreso il loro percorso nel mondo del lavoro. Alle frustrazioni personali si aggiungono i giudizi della famiglia, in particolare del padre, che non manca di mostrare imbarazzo per un figlio che considera “smarrito”. Durante gli ultimi giorni al campus, quando persino la ragazza lo abbandona, Fielding decide di adottare un cane che chiamerà Gonker. Dopo la laurea tornerà a casa col cane e, dopo le prime lamentele dei genitori, Gonker diverrà parte integrante della famiglia. Un giorno, durante una passeggiata sugli Appalachi, Gonker si allontana e non torna più. Inizierà una corsa contro il tempo per ritrovarlo perché l’animale è affetto dal morbo di Addison e necessita di un’iniezione ogni trenta giorni. Solo venti ne rimangono prima della successiva dose di farmaco.
Fielding decide di adottare Gonker in un momento della sua vita di particolare sofferenza. Quando tutti intorno a lui sembrano non accettarlo per quello che è, sembrano non concedergli (il giusto) tempo, ritrovare qualcuno che lo ami per i suoi pregi e i mille difetti che possiede, o almeno quelli che la società ci induce a pensare siano difetti, diventa la sua ragione di vita. La perdita di Gonker, la paura di non ritrovarlo più e la possibilità che muoia per mancanza di cure, scatenano in lui uno spirito di intraprendenza sicuramente rimasto latente per molti anni, così come le abilità che lo aiuteranno ad affrontare i giorni di ricerca.
Poco importa se l’amico in questione ha quattro zampe ed è ricoperto di peli, perché il desiderio di ritrovarlo lo aiuterà a far emergere la sua vera personalità, il suo essere, e i genitori non potranno fare a meno di accorgersi che il proprio figlio non è il perdente che avevano sempre pensato che fosse. Il viaggio alla ricerca dell’animale è commovente, chiunque abbia o abbia avuto una bestiolina al proprio fianco non può fare a meno di versare qualche lacrima di fronte a questa storia semplice e sincera, soprattutto perché l’intera nazione ne rimarrà toccata e in un modo o nell’altro, attraverso i social o i mezzi di comunicazione tradizionali, vorrà dare il proprio contributo.
Il rapporto tra Fielding e suo padre John ha grande spazio e rilevanza nella trama del film. La ricerca di Gonker diventerà la chiave di un viaggio on the road per le strade della Virginia, un espediente narrativo che servirà ad avviare un confronto tra i due fino ad allora rimandato. Il titolo del film pone al centro il cane, ma a un certo punto il suo ruolo diventa quasi marginale, almeno ai nostri occhi, perché aleggia come un’ombra sulla vita del ragazzo e della sua famiglia. John, come ogni genitore, è molto preoccupato per il figlio e la cosa si traduce in imbarazzo di fronte agli amici, frustrazione e piccoli battibecchi con la moglie. Ci vorrà del tempo perché i due trovino un punto d’incontro da cui ripartire ma ci riusciranno, d’altronde nel mondo del cinema i viaggi in macchina sono sempre stati rigeneranti e rivelatori. Anche il personaggio della madre ha una storia da raccontare.
Nel suo passato c’è un trauma mai superato, un senso di colpa per non essersi presa adeguatamente cura del suo cane e la rabbia verso i genitori che del cane non volevano saperne. La perdita di Gonker farà riemergere tutto ciò e la sofferenza servirà a esorcizzare l’accaduto e a perdonarsi, così da accogliere ufficialmente il nuovo animale nel suo cuore. Dog Gone, fatta eccezione per i flashback riguardanti il passato della madre di Fielding, segue un ritmo e una narrazione molto lineari. Fa il suo dovere di film per famiglie e anche il cast sembra sentire il tema molto da vicino – le immagini nei titoli di coda lo dimostrano – con interpretazioni decisamente realistiche. Perfettamente confezionata per piacere a grandi e piccini, la pellicola di Stephen Herek in qualsiasi momento la si proponga risulterà sempre uno dei migliori suggerimenti cinematografici da dare a chi ama gli animali e non solo, perché anche chi si sente un po’ come Fielding e ogni giorno cerca la sua strada remando controcorrente potrà trovarvi conforto.
Modificando alcune parti della versione originale narrata da Toutonghi, il dramma riscritto da Nick Santora sembrerebbe un classico racconto adatto a tutti sulla momentanea scomparsa di un cane, e sul suo ritrovamento, il cui unico scopo è rendere omaggio al rapporto privilegiato tra il mondo canino e quello umano e al legame profondo che tra essi si instaura negli anni. Dog Gone è esattamente tutto questo: prevedibile, estremamente emotivo, un cliché. Ma la sua trama scontata sostiene aspetti tutt’altro che banali quali l’accettazione da parte di un genitore della devastante fragilità di un figlio e di un malessere fisico e psicologico rimasto a lungo tempo latente e potenzialmente fatale.
Infatti, dietro ai suoi tratti da feel-good movie costruiti sull’incauta decisione di adottare un cane, presa da uno studente ventunenne appena uscito dall’università, laureato senza prospettive e di nuovo a casa dei genitori per riflettere su una scelta sul proprio futuro che tarda a manifestarsi, si fa spazio, parallelamente, una fase di responsabilità e di adesione all’età adulta che dà al film diretto da Stephen Herek un valore aggiunto capace di emozionare, per la chiarezza con cui ci viene rappresentato o magari perché si rivolge a qualche giovane “smarrito” che potrebbe sentirsi accolto nell’arduo viaggio simbolico che vede riflesso nel personaggio di Fielding.
La perdita di Gonker dovuta a un’imperdonabile leggerezza da parte del suo padroncino, e la task force che si mobilita per ritrovarlo dentro e fuori i confini del quartiere, coinvolgendo stampa, associazioni animaliste e amanti delle creature a quattro zampe, esaltano valori cari al cinema americano come la cooperazione e il sostegno delle autorità locali mentre tracciano temi che sorreggono il nucleo relazionale più importante della storia: quello tra il solido e concreto padre John (Rob Lowe) e il figlio ancora indeciso su chi vorrebbe essere, interpretato con sorprendente abilità dall’attore Johnny Berchtold. Il viaggio on the road sui Monti Appalachi è il loro, una metafora dell’incontro/riconciliazione che avrà luogo nel finale tra Gonker e Fielding, conquistato tra estenuanti peregrinazioni, discorsi a viso aperto, pernottamenti qua e là e una sofferenza prolungata e a lungo nascosta da parte del giovane protagonista che adduce un sapore oscuro e amaro piuttosto inaspettato.
Fonte: FILMY HYPE